“Non c’è cicatrice, per quanto brutale paia,che non racchiuda bellezza. Una precisa storia si narra in essa, un qualche dolore. Ma anche la sua fine. Le cicatrici, allora, sono le cuciture della memoria, una finitura imperfetta che sana danneggiandoci. La forma che il tempo trova di non dimenticare mai le ferite.”
Piedad Bonnett, “Le cicatrici”
I rifiuti sono la ferita emotiva più comune che affrontiamo nella vita quotidiana. In passato il rischio di essere rifiutati era circoscritto alla nostra rete sociale circostante. Oggi, grazie ad internet e alle piattaforme di social media, ognuno di noi è connesso a centinaia di persone, ognuna delle quali potrebbe ignorare i nostri post, chat, messaggi o profili e lasciarsi respingere di conseguenza.
Oltre a questi tipi di rifiuti minori, siamo comunque vulnerabili a rifiuti gravi e più devastanti. Quando il nostro partner ci lascia, quando siamo licenziati, snobbati dai nostri amici, o ostacolati dalle nostre famiglie e comunità per le nostre scelte di vita, il dolore che sentiamo può essere assolutamente paralizzante.
Se il rifiuto che sperimentiamo può essere più o meno grave, una cosa rimane costante fa sempre male, e spesso fa più male di quanto ci aspettiamo.
La domanda è: perché?
Perché siamo così infastiditi da un buon amico che non riesce ad “apprezzare” la foto delle vacanze che abbiamo pubblicato su Facebook? Perché influenza il nostro umore?
La maggior parte delle forme di rifiuto di solito è autoinflitta. Proprio quando la nostra autostima è più vulnerabile, siamo indotti a danneggiarla ancora di più.
I nostri cervelli sono cablati (configurati) per rispondere in questo modo. Quando gli scienziati hanno sottoposto le persone alla risonanza magnetica chiedendo loro di ricordare un recente rifiuto, hanno scoperto qualcosa di sorprendente: le aree cerebrali che si attivano quando sperimentiamo il rifiuto sono le stesse che si attivano quando sentiamo il dolore fisico.
Ecco perché anche un piccolo rifiuto fa più male di quanto pensiamo, perché provoca dolore emotivo. Ma perché il nostro cervello è programmato in questo modo?
Gli psicologi evoluzionisti credono che tutto sia iniziato nella preistoria quando eravamo cacciatori raccoglitori che vivevano nelle tribù.
Dal momento che non potevamo sopravvivere da soli, l’ostracismo da parte della nostra tribù rappresentava una vera e propria condanna a morte.
Di conseguenza, abbiamo sviluppato un meccanismo di pre-allarme per avvisarci quando eravamo a rischio di essere “cacciati dal gruppo” e, tale meccanismo è appunto il rifiuto.
Le persone che hanno sperimentato il rifiuto come più doloroso hanno più probabilità di cambiare il loro comportamento, e quindi di continuare a far parte della tribù e trasmettere il loro patrimonio genetico. I segnali fisici di dolore che servivano a limitare il danneggiamento del corpo, si sono evoluti per allarmare l’uomo contro il pericolo di perdere l’appartenenza alla propria rete sociale.
Come il dolore fisico protegge gli animali dirigendo l’attenzione verso la ferita del corpo, così il dolore emotivo potrebbe servire a focalizzare l’attenzione sulla possibilità di perdere un legame, fosse anche inconsapevolmente, utile per la nostra sopravvivenza.
Naturalmente, il dolore emotivo è solo uno dei modi in cui il rifiuto influisce sul nostro benessere. Il rifiuto danneggia anche il nostro umore e la nostra autostima, provocando ondate di rabbia e aggressività e destabilizza il nostro bisogno di “appartenenza”.
Sfortunatamente, la maggior parte del dolore emotivo connesso al rifiuto è di solito autoinflitta. In effetti, la nostra naturale risposta quando veniamo scaricati da un amico/partner non è solo di “leccarci le nostre ferite”, ma assumere un atteggiamento rigidamente giudicante verso noi stessi.
Ci etichettiamo, ci autocommiseriamo e ci sentiamo inadeguati. In altre parole, proprio quando la nostra autostima è più dolorante, infieriamo su di essa. Tuttavia questa reazione è emotivamente malsana e psicologicamente auto-distruttiva, ma ognuno di noi prima o poi la sperimenta.
La buona notizia è che ci sono modi migliori e più sani per rispondere al rifiuto, cose che possiamo fare per evitare le risposte malsane, lenire il nostro dolore emotivo e ricostruire la nostra autostima. Eccone alcuni:
Avere tolleranza zero per l’autocritica
All’indomani di un rifiuto, per quanto possa essere allettante elencare tutte le tue colpe, e quindi percepire come normale la necessità di punirti per quello che hai fatto di “sbagliato”; puoi riesaminare in ogni caso ciò che è accaduto e considerare cosa potresti fare in modo diverso in futuro, evitando di colpevolizzarti e quindi diventar autopunitivo verso te stesso.
Pensare ad esempio che: “Probabilmente dovrei evitare di parlare del mio ex al mio prossimo primo appuntamento,” vuol dire concedersi l’opportunità di apprendere dall’esperienza.
Oppure arrivare alla conclusione che: “sono stato rifiutato dunque sono un vero perdente!”, significa concedere al giudizio dell’altro il potere di annullare la considerazione che abbiamo di noi stessi.
Un altro errore comune è quello di dare per scontato che il rifiuto sia personale quando non lo è. La maggior parte dei rifiuti, sia privati che professionali o anche sociali, sono dovuti alla necessità di trovare una forma di adattamento o sono connessi alla presenza di circostanze sfavorevoli.
Autoinfliggersi un’analisi capillare delle proprie mancanze nel tentativo di capire perché non ha “funzionato” non è solo inutile, ma spesso si rivela fuorviante.
Rianima la tua autostima
Quando la tua autostima viene colpita, è importante focalizzarti sulle tue risorse, anziché circoscrivere il tuo orizzonte come se esistessero solo i tuoi limiti. Il modo migliore per farlo è identificare gli aspetti del tuo modo di essere che consideri preziosi.
Fai una lista di cinque qualità che sono significative: ad esempio, sei un buon ascoltatore oppure sei affidabile ecc., quindi scegli uno di questi aspetti e scrivi un breve paragrafo (scrivi, non limitarti a pensarlo) su come la esprimerai nella situazione pertinente.
Aumenta i sentimenti di connessione sociale
Come animali sociali, dobbiamo sentirci ricercati e apprezzati dai vari gruppi sociali con cui siamo affiliati. Il rifiuto destabilizza il nostro bisogno di appartenere, lasciandoci insoddisfatti e socialmente senza legami.
Pertanto, dobbiamo ricordare a noi stessi che siamo apprezzati e amati in modo che possiamo sentirci più connessi e radicati. Se ad esempio i tuoi colleghi di lavoro non ti hanno invitato a pranzo, prendi invece un aperitivo con i membri della tua squadra di calcetto.
Il rifiuto non è mai facile da affrontare ma sapere come limitare il danno psicologico che infligge e come nutrire la tua autostima, ti aiuterà a riprenderti prima e ad andare avanti con fiducia.