Cos’è la rigidità emozionale?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La bellezza della vita è imprescindibile dalla sua vulnerabilità. Siamo giovani finché non lo siamo più. Camminiamo per le strade attirando sguardi di ammirazione fino a quando non realizziamo che passiamo inosservati. Rimproveriamo i nostri figli e un giorno all’improvviso realizziamo che c’è il silenzio dove una volta c’era quel bambino, che si sta facendo strada nel mondo. Siamo in salute fino a quando la malattia ci fa piegare in ginocchio. La sola certezza è l’incertezza, eppure non affrontiamo questa vulnerabilità in modo efficace e quindi sostenibile. L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che la depressione è ora la prima causa di disabilità a livello globale, superando il cancro e i problemi cardiaci.
Come possiamo esplorare il nostro mondo interiore? Questa è la domanda cruciale che è diventata la bussola grazie alla quale ho identificato in quale direzione orientare la rotta della mia vita, avevo solo 14 anni ma era chiaro: la Psicologia era la disciplina scientifica alla quale potevo rivolgere le mie domande interiori. I pensieri, le emozioni e le esperienze di ciascuno di noi plasmano il nostro modo di essere, un universo sfaccettato di significati che sono costantemente coinvolti in un processo di crescita personale.

Il modo in cui viviamo il mondo interiore condiziona ogni aspetto del nostro modo di essere: il nostro modo di essere figli, partner oppure genitori. Interpretare in modo convenzionale le emozioni come buone o cattive, positive o negative, è un approccio rigido e penalizzante per il nostro benessere interiore, poiché la rigidità di fronte alla complessità si rivela deleteria. Abbiamo bisogno di maggiore apertura e flessibilità emozionale per promuovere il processo di crescita personale. Tuttavia, inconsapevoli della valenza distruttiva di questo atteggiamento, spesso ci rifugiamo nella negazione della nostra sofferenza che, a sua volta, ci spinge velocemente nella spirale negativa dell’autoisolamento. In alcuni casi iniziamo a fare abuso di “sostanze” (ad es. di cibo, alcol, gioco d’azzardo, pornografia ecc.), nel tentativo illusorio di “anestetizzare” il dolore. Viviamo in una cultura che valorizza la positività a tutti i costi e, finiamo per concludere che esprimere la nostra sofferenza ci farà apparire deboli e perdenti.

Spesso durante la seduta di psicoterapia, sia essa individuale o di coppia, rivolgo alla persona di fronte a me questa domanda: “cosa succede dentro di te in questo momento?” e, non di rado, la stanza di terapia si riempie di un silenzio cari- co di emozioni che si affollano tutte insieme e affidano la loro voce a quelle lacrime che, attendono da tanto tempo, il “permesso” di scorrere liberamente. Fino a quel momento l’attenzione di quella persona era focalizzata sui suoi pensieri e a volte non è facile sintonizzarsi con quell’emozione/i che è stata censurata per tanto tempo. Ecco: la psicoterapia inizia nel momento in cui ci sentiamo rivolgere uno sguardo diverso, uno sguardo non giudicante, empatico che ci incoraggia ad uscire gradualmente dal “guscio” delle nostre difese che si sono profondamente radicate dentro di noi.

Viviamo un’epoca di enorme complessità a seguito di cambiamenti tecnologici, politici ed economici mai verificatisi in passato, tuttavia noi psicologi-psicoterapeuti osserviamo quotidianamente da parte delle persone, la tendenza a bloccarsi in risposte emozionali sempre più rigide e caratterizzate da una notevole difensività. A volte tali risposte alimentano una sorta di rimuginazione quasi ossessiva sulle proprie emozioni che finiscono per restare “ingabbiate” in sterili elucubrazioni, magari siamo convinti che in questo modo riusciremo ad avere tutto sotto controllo, oppure ci lasciamo influenzare dai consigli del “guru” del momento che impazza in rete con i suoi video. Nel peggiore dei casi finiamo per “rinchiudere” le nostre emozioni negative, in altre parole negando la loro esistenza e illudendoci che dentro di noi esistano solo quelle emozioni ritenute legittime. Una ricerca condotta nel 2017 dalla dott.ssa David, psicologa presso la Harward Medical School, su un campione di circa 70.000 persone, ha scoperto che un terzo delle persone: si giudica negativamente per il solo fatto di provare le cosiddette “brutte emozioni”, come tristezza, rabbia o persino dolore. Oppure prova con de- terminazione a metterle da parte. Se questo atteggiamento di negazione diventa consueto e si innesca sempre più rapida- mente, potremmo provare vergogna che a sua volta renderebbe ancora più doloroso il nostro vissuto emotivo.

Emozioni naturali, vengono giudicate come buone o cattive o peggio, patologiche. Essere positivo è diventato una nuova forma di correttezza morale. Ad esempio, ad una persona alla quale viene diagnosticato un cancro viene automaticamente detto di assumere un atteggiamento positivo, oppure ad una persona che ha subito un’ingiustizia, di smettere di essere così arrabbiata. È una tirannia. È una tirannia di positività, ma è un approccio disfunzionale che puntualmente si rivela controproducente, tuttavia, non essendone consapevoli lo rivolgiamo sia verso noi stessi, sia verso gli altri. C’è una caratteristica che accomuna il rimuginare, negare o mistificare un’emozione negativa: in ogni caso si tratta di risposte emozionali rigide. E se c’è una sola lezione che possiamo imparare dalla caduta dell’apartheid è che la rigida negazione non funziona. È insostenibile. Per gli individui, per le famiglie, per le società. La ricerca scientifica sulla negazione delle emozioni ha evidenziato che se esse sono accantonate o ignorate, si rafforzano, si consolidano e quindi si irrigidiscono. Gli psicologi chiamano tale processo amplificazione: in altre parole più provi a ignorarla e più quell’emozione avrà una maggiore presa su di te. Potresti pensare di avere il controllo di emozioni indesiderate quando le ignori, ma di fatto esse hanno ti condizionano e quindi esercitano una forma di potere /controllo. Il dolore interiore prima o poi affiora. Sempre e chi ne paga il prezzo? Noi stessi. I nostri figli, i nostri partner, le nostre comunità. La prossima settimana parleremo di come avviare un processo che ci consenta di identificare le risposte emozionali rigide e quindi sviluppare una progressiva flessibilità emozionale e altre risorse interiori che ci consentono di essere noi stessi. “Tutto ciò che sono è sufficiente, se solo riesco ad esserlo” Carl Rogers

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