” La psicoterapia è efficace nel 75% dei pazienti, rispetto ai pazienti non trattati”.
Con queste parole Peter Fonagy, direttore del dipartimento di Psicologia Clinica presso lo University College di Londra, presidente del Centro Anna Freud della capitale inglese e coautore del volume «Psicoterapie e prove di efficacia. Quale terapia per quale paziente?», ha descritto, al XIII Congresso dell’Escap, le prospettive e l’efficacia dell’intervento psicoterapico.
“L’integrazione delle cure con un adeguato percorso di psicoterapia – ha spiegato Fonagy – è necessaria anche nella psichiatria infantile. In particolare, a seconda del tipo di disturbo, l’impiego di una psicoterapia specifica per quel disagio presenta una efficacia non inferiore al 50% fino a portare ad un miglioramento clinico anche del 90% dei casi.
A confronto con la terapia meramente farmacologia, l’intervento psicoterapico garantisce un’efficacia significativa senza indurre gli effetti collaterali, che, soprattutto per alcuni farmaci, possono avere conseguenze di rilievo”.
Il prof. Fonagy ha, inoltre, evidenziato l’importanza del «problem solving» (collaborazione terapeuta-famiglia nell’esercitarsi ad individuare strategie di soluzione dei problemi secondari al disagio mentale presente) e del «parent training» (sedute di psicoterapia coinvolgenti i genitori del piccolo paziente) nella cura dei disturbi d’ansia, disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (Adhd), sindrome depressiva e disturbi della condotta.
“L’ambiente familiare costituisce – ha sottolineato Fonagy – per i pazienti in età adolescenziale e infantile, il laboratorio nel quale si testano gli interventi psicoterapici; trattare il paziente senza occuparsi del contesto ambientale nel quale cresce e si sviluppa significa operare un cambiamento nell’individuo, senza però modificare efficacemente lo stile relazionale disfunzionale nel quale il disagio si è sviluppato. Lo psicoterapeuta per l’infanzia e l’adolescenza deve agire nel contesto familiare con uno stile “da detective, come il tenente Colombo”, interessandosi a come i membri della famiglia si relazionano tra loro ed educano i figli, senza proporsi come un educatore alternativo”.
“Tutti gli indirizzi psicoterapici presentano – ha concluso Fonagy – un denominatore comune ed una forza universale: nella stanza del terapeuta troviamo sempre due menti consapevoli della propria persona (terapeuta e paziente) che lavorano insieme ad un percorso comune».
Una serie di indagini internazionali lo conferma: non ci sono solo le remissioni spontanee e i farmaci. Ma non si è individuato un tipo di approccio, dallo psicodinamico fino al sistemico, che prevalga su tutti gli altri.
E’ utile ricorrere allo psicoterapeuta o allo psicoanalista?
Oppure è preferibile, quando si è ansiosi, insicuri, depressi o preda di un’ossessione rivolgersi ai farmaci?
Siamo certi che le psicoterapie curino oppure la remissione, quando c’è, è legata al passare del tempo e quindi è spontanea? E
ancora: come orientarsi nella grande varietà di scuole e di approcci terapeutici presenti sul mercato? Esistono metodi più efficaci di altri?
Metodo di indagine
A queste domande risponde un interessante articolo pubblicato su «Psicologia Contemporanea», la rivista «storica» degli psicologi italiani. L’autore, Mauro Fornaro, spiega come a partire dalla fine degli Anni Sessanta siano nate – anche sotto la spinta dalle compagnie assicurative e dai servizi sanitari nazionali che nelle psicoterapie investono il loro denaro – delle associazioni internazionali, con sezioni in vari Paesi occidentali, tra i quali anche l’Italia. Compito istituzionale di queste associazioni è quello di occuparsi della ricerca in psicoterapia, promuovendo studi in grado di seguire l’iter terapeutico dall’inizio alla fine.
Il metodo di indagine utilizzato in questo genere di studi è tanto complesso quanto rigoroso ed ora possiamo disporre di risposte piuttosto interessanti e anche un po’ sorprendenti. Un primo risultato, unanime, è che le psicoterapie vantano una percentuale di sicuri successi al di sopra delle remissioni spontanee. Per ogni patologia considerata, infatti, gli effetti sono decisamente superiori ai gruppi di controllo, o almeno pari o superiori alle cure con psicofarmaci, di cui comunque rendono più duraturi gli effetti
. Il 60-80% dei casi trattati presentano importanti miglioramenti.
Se si utilizza poi la risonanza magnetica e altre tecniche di esplorazione del cervello, si trova una concomitanza tra successo della psicoterapia e rilevanti variazioni nel funzionamento delle aree cerebrali interessate.
Inutile dire che questo risultato fornisce una sostanziale boccata d’ossigeno a tutti coloro che si dedicano alla psicoterapia, la cui efficacia era stata messa in dubbio dalle ricerche pionieristiche condotte negli Anni Cinquanta dallo psicologo Hans Eysenck.
Risultato intrigante
Il secondo risultato è invece più intrigante e sorprendente. Confrontando i risultati provenienti da ricerche eseguite su percorsi terapeutici condotti con approcci e tecniche differenti (psicodinamico-psicoanalitico, cognitivo-comportamentale, umanistico-esistenziale, sistemico-relazionale ecc.), è emerso che non c’è evidenza che un tipo di approccio sia superiore ad un altro. Su questo punto secondo i ricercatori varrebbe il verdetto di Dodo (un personaggio di Alice nel paese delle meraviglie): «Tutti hanno vinto e ciascuno merita un premio».
Ma se le tecniche di scuola non sono determinanti ai fini del successo terapeutico, quali sono allora i fattori che maggiormente contribuiscono al successo terapeutico? Più che i fattori specifici, ossia il metodo e le tecniche di trattamento, che inciderebbero per non più dell’8%, l’effetto curativo dipenderebbe in gran parte dai fattori aspecifici.
Tali fattori consistono principalmente nella persona del terapeuta: la sua esperienza, il tuo talento, le sue doti umane di ascolto e di disponibilità e, inoltre, nella qualità del rapporto che si instaura tra lui e il paziente.
Un fattore centrale risulterebbe essere la cosiddetta «alleanza terapeutica», ossia un mix fatto di fiducia del paziente nei confronti del terapeuta, disponibilità empatica di quest’ultimo e, soprattutto, la sensazione e l’impegno, da parte di entrambi, di lavorare insieme per un obiettivo comune.
Legame profondo
Pur non trattandosi di amicizia, quello che unisce il paziente al terapeuta è un legame profondo che consente al paziente di esprimersi liberamente senza sentirsi giudicato oppure criticato. Questi sente di essere coinvolto in una relazione stabile, sicura, onesta, non coercitiva e «nutriente», al cui interno può esprimersi spontaneamente senza doverne subire le conseguenze. In questo clima egli incomincia a porsi domande su ciò che non sa ancora di se stesso, il che alimenta il suo interesse e il suo impegno e lo porta ad iniziare a pensare in modo diverso, uscendo dagli schemi abituali.